L’Italia può essere orgogliosa dei risultati raggiunti nella lotta contro il virus dell’epatite C (HCV), avendo trattato oltre 200mila persone. Per eliminare la malattia però, bisogna agire attraverso lo screening sulle popolazioni a rischio e su altri gruppi di popolazione generale dove l’epatite C ha una prevalenza superiore. Sono questi in sintesi i risultati dello studio condotto in collaborazione con la Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata e con esperti internazionali di stime globali dell'infezione HCV del Polaris Observatory USA, e pubblicato sulla rivista Liver International, che mirava a valutare il rapporto costo-efficacia di cinque potenziali strategie di screening dell'HCV nel nostro Paese.
Screening graduato
Invece di testare tutta la popolazione, lo studio individua un metodo preciso per far emergere il “sommerso” e avviare alle cure le persone in cui non è ancora stata identificata l’infezione, raggiungendo gli obiettivi dell'OMS per l'eliminazione dell’HCV entro il 2030, con un beneficio a lungo termine sia di salute che economico per il nostro SSN. “Lo screening dell'epatite C mirato (cioè rivolto a quei gruppi di popolazione in cui, conoscendo la storia naturale della malattia, si presume ci sia la maggior parte delle infezioni non diagnosticate) si rivela, sulla base di modelli matematici, la strategia migliore per l'Italia sotto il profilo costo-efficacia - si legge nello studio -. L’obiettivo è testare in modo sistematico le key population (tossicodipendenti, carcerati, migranti provenienti da Paesi a rischio, omosessuali, sex workers etc) e, con una strategia graduata, indipendentemente dai fattori di rischio, le coorti di nascita nella popolazione generale comprese tra gli anni 1948-1987, dove si colloca la maggior parte degli individui con infezione non nota”.
La strategia individuata dallo studio “basata sullo screening graduato, che identifica prima le popolazioni giovani (coorti di nascita 1968-1987) a rischio di trasmissione dell’HCV, per poi espandersi a quelle più anziane (coorti di nascita 1948-1967) prima che la malattia progredisca, ha prodotto il profilo di costo-efficacia più favorevole per l'Italia - spiega Loreta Kondili, ricercatrice del Centro Nazionale per la Salute Globale dell'ISS, responsabile scientifico dello studio - ed è risultata dai modelli matematici la più efficace e sostenibile al fine di aumentare le diagnosi a un costo nettamente inferiore rispetto allo screening universale. E proprio grazie a questo studio, oltre che al lavoro di società scientifiche e associazioni di pazienti e all’impegno della politica, è stato approvato nel decreto Milleproroghe un emendamento che stanzia 71,5 milioni di euro per lo screening gratuito di particolari gruppi di popolazione in Italia per il biennio 2020-2021”.
Testare e trattare
Nell'ambito delle coorti indicate, si deve fare un discorso a parte per le key population. “In questi casi deve essere applicata la strategia “testare e trattare” piuttosto che quella del testare per coorti di nascita – continua l'esperta – Infatti, senza includere questi gruppi in primis in specifiche politiche di screening, ci si aspetta che il carico di infezione e di malattia continui ad aumentare.
Si calcola che vi siano circa 150.000 infezioni tra i tossicodipendenti e circa 80.000 tra chi ha fatto trattamenti estetici prima del 2000, per un totale di circa 250-300.000 infezioni 'sommerse' includendo anche chi ha contratto l'infezione dal dentista o da interventi chirurgici senza, tuttora, saperlo”.
L'HCV in Italia e nel mondo
Il virus dell'epatite C è una delle principali cause di morbilità e mortalità epatica, causando circa 71 milioni di infezioni a livello globale e circa 400 mila morti l'anno. In Italia il numero esatto di infezioni non è noto, perché molte non sono diagnosticate. Tuttavia, il nostro è il Paese europeo con il più alto tasso di mortalità per epatite C (nel 2016 l’Eurostat ha calcolato 38 decessi per milione di abitanti contro i 13 della media UE) e con uno dei maggiori oneri (con oltre 200 mila pazienti trattati dal 2015 ad oggi).
La prevalenza dell'HCV nel nostro Paese è di circa l'1%, anche se studi precedenti hanno stimato tassi fino al 7% nei nati tra il 1935 e il 1944, mentre quelli di 30 anni e più giovani sono meno a rischio di contrarre l'HCV, con differenze geografiche nella distribuzione della prevalenza e con tassi più elevati nel Sud Italia.
La modalità di contrarre l’infezione è cambiata nel tempo
Un gran numero di infezioni si è verificato tra gli anni '50 e gli anni '60 a causa dell'uso di materiali non sterilizzati e tra gli anni '80 e '90 causa dello scambio di siringhe tra i tossicodipendenti. Dopo gli anni '90 i trattamenti estetici in condizioni igieniche non adeguate e le infezioni ospedaliere, soprattutto in seguito ad interventi chirurgici, hanno avuto un importante ruolo nella trasmissione dell’infezione secondo i dati del Sistema Epidemiologico Integrato dell’epatite virale acuta.
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