Tumori polmone, scoperta causa resistenza a immunoterapia
Appuntamento con Marcello Maugeri-Saccà, oncologo medico e ricercatore presso la Divisione di Oncologia Medica 2 dell’IRCCS Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma
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Appuntamento con Marcello Maugeri-Saccà, oncologo medico e ricercatore presso la Divisione di Oncologia Medica 2 dell’IRCCS Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma
In Italia ogni anno si registrano circa 41mila nuove diagnosi di tumore polmonare. Negli ultimi anni l’immunoterapia ha però rivoluzionato il trattamento dei tumori, raggiungendo sorprendenti risultati clinici, anche nelle neoplasie polmonari. La buona notizia è che una discreta percentuale di tutti i soggetti con tumore al polmone, che in precedenza avevano una prognosi infausta, rispondono all’immunoterapia con inibitori di PD-1/PD-L1 e diventano lungo sopravviventi. Purtroppo, però, una parte non trascurabile di pazienti non beneficia di tale trattamento.
Un recente studio (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0923753420421702) del team guidato da Marcello Maugeri-Saccà, oncologo medico e ricercatore presso la Divisione di Oncologia Medica 2 dell’IRCCS Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma, e pubblicato su Annals of Oncology (rivista ufficiale dell’European Society for Medical Oncology), rivela che un sottogruppo di pazienti con adenocarcinomi polmonari che presentano mutazioni contemporanee nei geni KEAP1, PBRM1, SMARCA4 e STK11, è particolarmente svantaggiato e resistente alla immunoterapia.
“Da alcuni anni – afferma Maugeri-Saccà - per la cura di tali tumori abbiamo a disposizione una nuova ed importante arma terapeutica, ovvero l’immunoterapia. Si tratta dei cosiddetti anticorpi monoclonali che hanno l’obiettivo di stimolare il nostro sistema immunitario contro la malattia”. Nonostante gli ottimi risultati in termini di efficacia clinica, purtroppo non tutti i pazienti traggono giovamento da questo trattamento.
“Il nostro studio - prosegue l’oncologo - ha identificato un sottogruppo di pazienti che non hanno beneficio con l’immunoterapia, da ricondursi alla presenza nel tumore di uno specifico repertorio mutazionale. Questo si traduce in una progressione di malattia più rapida e in una minore sopravvivenza rispetto ai pazienti che non presentano specifiche mutazioni. Stiamo parlando del 10-15% di tutti i soggetti con adenocarcinoma polmonare, la neoplasia polmonare più frequente”.
“Si tratta di mutazioni coesistenti – spiega Maugeri-Saccà - che coinvolgono almeno due dei seguenti geni: KEAP1, PBRM1, SMARCA4 e STK11. Tale assetto mutazionale identifica dei tumori immunologicamente “freddi”, nonostante un carico mutazionale elevato, come descritto nello studio. Anche se relativamente poco noti, questi geni sono frequentemente mutati nell’adenocarcinoma polmonare. Grazie ai progressi della biologia molecolare e della medicina di precisione nel campo oncologico, attualmente possiamo identificare queste mutazioni in due modi: direttamente sul campione di tessuto tumorale prelevato dal paziente, per esempio su un campione bioptico o intervento chirurgico, oppure possono essere identificate nel DNA tumorale circolante presente nel sangue del paziente, ovvero con un semplice prelievo ematico”.
L’identificazione a priori dei pazienti cosiddetti non-rispondenti, secondo l’esperto, può permettere da un lato di evitare di sottoporli inutilmente ad una terapia per loro inefficace e con effetti collaterali talvolta pericolosi, dall’altro di studiare i meccanismi di resistenza nel tentativo di sviluppare nuovi approcci farmacologici.
“Conoscere l’assetto mutazionale dei tumori prima di iniziare i trattamenti oncologici – sottolinea Maugeri-Saccà - è fondamentale: ci permette di sapere se il tumore è sensibile ad un farmaco piuttosto che ad un altro, ci fornisce informazioni sulla biologia del tumore e sull’andamento clinico atteso. I risultati del nostro studio ci suggeriscono che conoscere i pazienti i cui tumori presentano queste mutazioni prima di iniziare il trattamento immunoterapico potrebbe rappresentare un “campanello d’allarme” sull’andamento della malattia, che si caratterizza per un andamento più tumultuoso ed un basso tasso di risposte all’immunoterapia. D’altra parte, i pazienti che nel tumore non mostrano queste mutazioni sembrano quelli che più di altri beneficiano del trattamento immunoterapico, e che quindi ottengono un prolungato controllo di malattia grazie a questa classe di farmaci”.
Sebbene si tratti di una scoperta rivoluzionaria, al momento l’identificazione a priori dei soggetti non-rispondenti non è pratica clinica. “Queste analisi genomiche – conferma Maugeri-Saccà - necessitano di strumentazioni tecniche e di capitale umano che non tutti i centri italiani hanno a disposizione. Si tratta di utilizzare dei pannelli multigenici, se non di sequenziare l’intero esoma (il DNA codificante), mediante next-generation sequencing, al fine di testare contemporaneamente un gran numero di mutazioni”. In tale contesto, “è doveroso sottolineare come questo tipo di scoperte sia frutto di un mix di fattori – conclude l’oncologo -. Due su tutti: la collaborazione con altri Enti, in questo caso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e la multidisciplinarità del gruppo di ricerca (oncologi medici, ricercatori, bioinformatici, patologi). A tal proposito, gli IRCCS oncologici sicuramente stanno dando un contributo fondamentale, nel contesto di un programma di collaborazione (Alleanza Contro il Cancro, ACC) che ha, tra i vari obiettivi, quello di rendere disponibili e riproducibili tecniche di sequenziamento, su scala relativamente ampia, da applicare alla pratica clinica”.
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