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Quando si parla di ictus si sottolinea spesso l’importanza di un intervento rapido, ma quanto conta veramente una diagnosi e un trattamento veloce e adeguato in queste circostanze? Ne abbiamo discusso con Valeria Caso, neurologa presso la Stroke Unit dell'Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia.

Cos’è un ictus

Il termine ictus, che viene dal latino, significa “colpo” e indica molto chiaramente il carattere violento e spesso inaspettato di questa patologia. “L'ictus cerebrale, spiega Valeria Caso, è causato dell'improvvisa chiusura o rottura di un vaso cerebrale e dal conseguente danno alle cellule cerebrali dovuto dalla mancanza dell'ossigeno e dei nutrimenti portati dal sangue (ischemia) o alla compressione dovuta al sangue uscito dal vaso (emorragia cerebrale)” e può colpire una persona in stato di benessere, con effetti più o meno transitori.

Fattori di rischio e stile di vita

Il rischio di ictus è collegato a fattori non modificabili, come il sesso, quello maschile è maggiormente colpito, l’età avanzata e la predisposizione genetica. Esistono però anche fattori di rischio modificabili, sui quali si può intervenire, come suggerisce Valeria Caso, con “un’opportuna correzione del proprio stile di vita, con un’alimentazione povera di grassi e di zuccheri, un’adeguata attività fisica e un controllo del peso costante”. Inoltre, raccomanda “l’interruzione di abitudini malsane, come il fumo o l’abuso di alcool, il controllo di fattori esterni, come lo stress, e la cura di patologie correlate, come malattie cardiovascolari e diabete”.

Incidenza dell’ictus nella popolazione

In Italia l’ictus cerebrale è la terza causa di morte e la prima in assoluto di disabilità. Ogni anno si registrano circa 120.000 casi, dei quali 100.000 sono nuovi e 20.000 recidive. L’incidenza aumenta con l’età, raggiungendo il picco dopo i 70 anni. Dati molto preoccupanti sono quelli inerenti ai decessi: circa il 10-20% delle persone colpite da ictus per la prima volta muore entro un mese e un altro 10% entro l’anno. Anche per chi sopravvive comunque la situazione è spesso molto difficile: circa un terzo dei malati accusa un grado elevato di disabilità.
(dati “Stroke Alliance for Europe” “L’impatto dell’ictus in Europa”)

Campanelli d’allarme e diagnosi

Dopo aver compreso la gravità e il peso sulla salute pubblica che rappresenta l’ictus, proviamo a capire quali sono i segnali da monitorare e come va gestita l’emergenza per limitare al minimo i rischi di gravi conseguenze. I sintomi più comuni possono manifestarsi in pochi minuti e persistere per più di 24 ore e comprendono:

  • paralisi improvvisa, disturbi della sensibilità, intorpidimento o debolezza, di solito da un solo lato del corpo, che interessano volto, braccio o gamba;
  • confusione e anomalie del linguaggio o difficoltà di capire quanto viene detto;
  • cecità improvvisa, generalmente da un solo occhio, o visione doppia;
  • forte vertigine con incapacità di camminare, perdita di equilibrio e coordinazione;
  • mal di testa improvviso e molto forte.

Cosa fare se si riscontra uno o più di questi sintomi? Valeria Caso è molto chiara a questo proposito: “l’ictus è un’emergenza medica e chi ne manifesta i sintomi deve immediatamente contattare il 118 ed essere accompagnato in ospedale”. Le attività diagnostiche da effettuare tempestivamente sono TC o RM, Angio-TC o eventuale Angio-RM o Ecodoppler dei tronchi sopra-aortici, routine ematochimica, valutazione clinica e somministrazione di scale neurologiche, per comprendere il livello di gravità dell’ictus in atto.

Tempi di trattamento

La possibilità di salvare più cellule nervose possibili da danno ischemico è strettamente collegata alla velocità di intervento. Come ci spiega Valeria Caso, “la finestra temporale per un possibile intervento terapeutico è racchiusa entro le 4,5-6 ore: entro questo lasso di tempo, infatti, i medici possono praticare la trombolisi, cioè la somministrazione endovenosa di farmaci capaci di disgregare il trombo che ha ostruito le arterie cerebrali provocando così l’attacco ischemico, e subito dopo la trombectomia meccanica, cioè la rimozione chirurgica per via endovascolare del trombo quando questo occlude uno dei grossi vasi arteriosi presenti all’interno del cranio.” Dopo questo lasso di tempo, i trattamenti potrebbero essere inefficaci o addirittura dannosi e quindi, fino ad ora, si preferiva evitarli, anche in caso di incertezza sul momento di esordio dei sintomi. Nuovi studi sembrano però offrire la possibilità in alcune circostanze di allungare i tempi di intervento fino a 9 ore per il trattamento trombolitico, grazie al ricorso alle più moderne tecniche di neuroimaging, e fino a 24 ore per la trombectomia meccanica.

Stroke Unit: utilità e diffusione

La presenza di Unità Neurovascolari sul territorio risulta fondamentale per poter assicurare la necessaria rapidità di intervento. In Italia, ci riferisce Valeria Caso, “dal 2003 al 2020 sono stati progressivamente autorizzati 220 centri su 300 Unità Neurovascolari necessarie, con una copertura globale del fabbisogno del 75.3%. Infatti, in Italia sono ancora poche le Unità Neurovascolari sul territorio, a scapito soprattutto delle Regioni del Sud (l’80% si trova al Nord). In altri termini, le Regioni del centro-nord, con l’eccezione di Friuli Venezia Giulia, Trentino e Alto Adige, hanno una copertura da completa a sufficiente. Invece, tutte le Regioni del centro- sud hanno una copertura insufficiente, con la sola eccezione di Umbria, Abruzzo, Molise, Marche e Calabria.” Una situazione di grossa disparità, che rende molte zone d’Italia impreparate a gestire in maniera efficace l’assistenza a un paziente colpito da ictus cerebrale, aumentando quindi considerevolmente il rischio di morte o di gravi danni permanenti.

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