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La drepanocitosi, malattia a cellule falciformi o Sickle Cell Disease (SCD), la cui Giornata mondiale si celebra il 19 giugno di ogni anno, è una patologia genetica rara che va ben oltre il danno ai globuli rossi e che presenta complicanze che riducono la funzionalità di organi vitali. Recentemente al Congresso dell’Associazione Europea di Ematologia (EHA, European Hematology Association) è stato pubblicato l’abstract di uno studio di Real Word Evidence da cui emerge che i pazienti in Italia sono oltre 7.000: un sommerso incredibile rispetto ai dati attualmente disponibili che parlano di 2-3.000 pazienti.

La malattia si caratterizza per la manifestazione periodiche di crisi falcemiche associate a dolore (VOC), eventi gravi, imprevedibili e possono rappresentare delle vere emergenze sanitarie a causa della loro rapida evoluzione e alta mortalità. Il 39% dei pazienti ha una media di oltre 5 eventi/anno. Sono crisi dolorose che interessano torace, addome e articolazioni e che insorgono improvvisamente. Quasi un quarto dei pazienti affronta le crisi nella propria abitazione (nel 24% dei casi), senza ricorrere all’assistenza medica: il 74% dei pazienti, in assenza di trattamenti adeguati, afferma di gestire il problema bevendo e riposandosi. È quanto emerge da “SWAY” (Sickle Cell World Assessment Survey), un’indagine internazionale, sponsorizzata da Novartis, su oltre 2 mila pazienti affetti da malattia a cellule falciformi, che ha coinvolto diversi Paesi, tra cui l’Italia.

Le crisi VOC rendono la malattia grave e invalidante

La drepanocitosi è una malattia rara, causata da una mutazione genetica ereditaria dell’emoglobina, la molecola presente nei globuli rossi e responsabile del trasporto di ossigeno in tutto il corpo. La forma mutata dell’emoglobina (emoglobina falciforme - sickle haemoglobin, HbS) in alcune condizioni di stress fisico, climatico e psicologico (es. infezioni, stanchezza, febbre, disidratazione, bassa ossigenazione, freddo/caldo eccessivi...), porta i globuli rossi ad assumere la forma a falce (sickling), ostacolandone il normale flusso all’interno dei vasi sanguigni. Da qui le crisi vaso occlusive (VOC) e le relative complicanze acute, che rappresentano solo la punta visibile dell’iceberg.

Tra una crisi di dolore e l’altra, il processo della vaso-occlusione continua ad avere luogo e produce effetti che causano danno vascolare, provando un progressivo danno agli organi con riduzione della funzionalità. In assenza di trattamento adeguato, quindi, può esservi un impatto sull’aspettativa di vita dei pazienti che, anche nei paesi sviluppati, è inferiore di circa 20 anni rispetto alla popolazione generale.

A sottovalutare di più i rischi di questa patologia subdola, secondo l’analisi SWAY, sono i pazienti italiani. Dei 55 intervistati, infatti, ben la metà dichiara di non ritenere opportuno rivolgersi al medico o all’ospedale in caso di VOC poiché considera i trattamenti disponibili non risolutivi e decide di rimanere a casa aspettando che il dolore passi. Il 72%, inoltre, afferma di sperare in un’alternativa terapeutica più efficace rispetto a quelle attualmente disponibili.

Il forte impatto negativo sulla qualità della vita dei malati emerge anche dall’indagine narrativa (in corso) realizzata dall’Area Sanità e Salute di ISTUD, con la collaborazione di Novartis Italia. I pazienti rappresentano la malattia come qualcosa di “grave e invalidante… sei giovane con un corpo di un vecchio… incapace di vivere una vita normale e lavorare come tutti con serenità”. Inoltre, il 40% degli intervistati dichiara di assentarsi dal lavoro a causa della malattia con una media di 47 giorni di lavoro annui e, nei casi più gravi, di ricorrere alle trasfusioni anche ogni 12 giorni.

La crisi, un problema soprattutto per adolescenti e giovani

Si tratta di un aspetto particolarmente importante perché la patologia, oltre a ridurre l’aspettativa di vita, causa dolore, deterioramento fisico e cognitivo con diminuzione di produttività lavorativa e scolastica in aggiunta a un numero maggiore di consumo di risorse sanitarie.
Per i giovani pazienti, anche recarsi in ospedale può rappresentare una sfida. Infatti, come commenta Raffaella Colombatti, dottoressa dell’Oncoematologia pediatrica dell’Università di Padova, “l'adolescente e il giovane adulto si recano meno volentieri in ospedale perché i percorsi di gestione delle urgenze della drepanocitosi sono meno conosciuti nel mondo degli adulti e non sempre il paziente trova dei medici esperti sulla sua malattia, per cui prova a rimanere a casa e gestirsi, finché può. A tale proposito lo specialista può rilasciare al paziente una SCD patient Emergency card, un semplice strumento che permette al paziente di essere tempestivamente identificato e gestito in modo adeguato anche da chi non conosce la malattia. Grazie alle linee guida a cui si può accedere con il QR code.

Un altro aspetto cruciale – prosegue Colombatti - è l'età della transizione: molti adolescenti devono imparare a gestire autonomamente la propria patologia e il passaggio dal mondo della pediatria al mondo dell'adulto non è semplice”.

Anche secondo Costanza Musci, Consigliere della Federazione Nazionale delle Associazioni UNITED Onlus il ruolo del caregiver non è facile poiché “deve imparare a riconoscere i segnali che anticipano una crisi, soprattutto in un paziente adolescente, per cercare di diminuirne al massimo l’impatto e la sofferenza”. Secondo la rappresentante dell’associazione, proprio la sofferenza “deve essere evitata con trattamenti che intervengano per prevenire le crisi, perché quando la crisi è passata hai già sofferto molto e quindi, aspettiamo con ansia farmaci che possano ridurre al minimo l’effetto delle crisi o che le possano prevenire”.

Presto disponibile una cura mirata

A oggi l’unica arma risolutiva per combattere la malattia è il trapianto di cellule staminali o di midollo osseo. In alternativa, i pazienti ricorrono a trasfusioni di sangue o, per ridurre il numero di crisi, all’idrossiurea. La ricerca però non si ferma e sono in arrivo nuove strategie terapeutiche come spiega Lucia De Franceschi, professoressa al Medicina interna all’Università di Verona.

“In Europa è stato recentemente approvato un anticorpo monoclonale che agisce su un target specifico, la p-selectina, che media l’adesione cellulare, prevenendo e riducendo significativamente le crisi vaso occlusive – spiega De Franceschi -. La sua introduzione nella pratica clinica ci permetterà di valutarne anche l’impatto sulla patologia nel lungo termine così come sulla gravità delle manifestazioni cliniche che coinvolgono organi target come il polmone, il rene, il cervello, l’osso o il fegato, con una possibile ricaduta positiva sulla qualità di vita del paziente”.

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