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La conoscenza delle dinamiche che stanno dietro al mondo della ricerca scientifica è oggi quanto mai importante già dagli anni della scuola, visto il dilagare delle fake news. Varie sono le recenti iniziative di divulgazione scientifica e di stimolo alla science literacy nell’ambito delle scienze biomediche.

Stenta a decollare in Italia, nella stessa scuola, l’uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione note come ICT (dall'inglese Information and communications technology) cioè l'insieme dei metodi e delle tecniche utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni (tecnologie digitali comprese).
Sono contradditorie le competenze dichiarate dai docenti che hanno imparato durante il loro percorso scolastico l’uso delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione necessarie per insegnarle, a loro volta, ai loro alunni come usare a scuola il computer e vari strumenti tecnologici.

Il rapporto sulla Ricerca e lo Sviluppo di Observa - Annuario Scienza Tecnologia e Società 2021, a cura di Barbara Saracino e Giuseppe Pellegrini contiene infatti una tabella sulla scuola che lascia diversi interrogativi.

I professori italiani delle scuole medie o secondarie di primo grado, sulla base dei dati Ocse del dossier “Talis 2018”, rispondono nel 52,5% dei casi che erano preparati a insegnare l’ICT già nel 2018, ultimo dato disponibile e precedente alla pandemia. Una percentuale inferiore alla media Ocse del 56%, ma comunque superiore a quella della parte francofona del Belgio (44,7%), della Croazia (47,3) o dell’Islanda (46,1). Non regge però il confronto con l’Alberta canadese dove i docenti già formati durante il percorso scolastico risultano nel 2018 il 70,5%, gli Emirati Arabi Uniti (86,5), Singapore (88,2) fino al Vietnam dove i professori spiccano su tutti con il 96,6%. Lascia perplessi il fatto che quegli stessi insegnanti italiani che affermano di essere pronti dal 2018, alla domanda successiva, e cioè se si sentono “preparati per l’uso delle Ict nell’insegnamento”, calano bruscamente al 35,6. Consapevoli della propria insufficienza.

Impreparazione tecnologica e dei professori nell’ICT: effetti sulla Dad

Tutti i Paesi del mondo si stanno chiedendo quali siano stati gli effetti della Didattica a distanza (Dad) sul livello degli apprendimenti conseguiti dagli studenti, in altre parole: quali sono i danni nell’apprendimento degli studenti nell’interminabile lockdown che li ha costretti alla Dad?

Non possiamo saperlo, risponde il documento Invalsi. Sappiamo però che “solo il 36% degli allievi della scuola primaria, poco meno di 4 su dieci, si è trovato ad affrontare la Dad in condizioni accettabili, quindi con buone opportunità di apprendimento. I numeri salgono un po’ negli altri ordini di scuola: circa 5 studenti su dieci nella scuola secondaria di primo grado e circa 7 su dieci in quella secondaria di secondo grado”. Il panorama appare preoccupante, soprattutto “in corrispondenza di bassi livelli di istruzione dei genitori”.

Qualche indizio potrebbe venire da quanto è successo, ad esempio, nei Paesi Bassi dove le scuole “hanno chiuso per il minor tempo” e c’erano le dotazioni migliori per affrontare la didattica a distanza (connettività tra le migliori al mondo, dotazioni tecnologiche delle famiglie tra le più elevate, incentivi rilevanti precedenti...). Eppure, “persino in una situazione ideale come quella”, i risultati dei consueti “test standardizzati censuari e obbligatori” che si fanno ogni anno, anche in forma ridotta sono stati “molto allarmanti”. In generale “tutti gli allievi del grado 3 si sono bloccati nel progresso di acquisizione di nuovi apprendimenti, perdendo di fatto proprio ciò che un allievo mediamente impara in circa due mesi di scuola che nel caso dei Paesi Bassi è stata esattamente la durata della chiusura delle scuole. Ma tale learning loss è del 55% superiore per gli allievi che provengono da famiglie svantaggiate”. Insomma, “se anche nei Paesi Bassi arrivati alla pandemia nelle condizioni teoriche migliori” è andata così, “possiamo immaginare cosa sia successo in Paesi come l’Italia”. Serve un monitoraggio sui danni subiti in questi mesi sventurati nelle generazioni più giovani con test adeguati, ma anche qualche scelta strategica.

Investimenti in ricerca: Italia indietro

L’Italia è ventisettesima nella classifica dei Paesi che mettono più soldi in Ricerca & Sviluppo rispetto alla ricchezza prodotta (Pil), escluse le spese per la difesa che in alcuni Stati letteralmente divorano i bilanci. Il nostro Paese non è solo dietro a Israele, Corea, Taiwan o Germania ma anche dietro Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria. La quota destinata al settore, ma sarebbe più corretto parlare di futuro, visto che il rilancio passa proprio dalla ricerca, è solo dell’1,4% del Pil (prodotto interno lordo), valore ben al di sotto alla media europea (2,0%) e a quella Ocse: 2,4%. Sono dati che si ricavano da Observa – Annuario Scienza Tecnologia e Società 2021, a cura di Barbara Saracino e Giuseppe Pellegrini, edito dal Mulino.
Con investimenti così bassi, non ci si può attendere risultati particolarmente brillanti anche nella classifica del numero di Ricercatori impiegati in R&S ogni mille occupati. In testa è la Danimarca con 15,7, seguita ancora da Corea, Svezia, Finlandia. L’Italia è quasi a un terzo come valore: 6 su mille. Certo, è davanti a Romania, Sudafrica o Messico, ma dietro la media Ue, quella Ocse o la Slovacchia.

Serve una roadmap

Potrebbe consolare osservare che l’Università copre il 37,3% e il settore pubblico il 15,6% di tutti i ricercatori italiani, ma il settore privato, che nella media Ocse assorbe quasi due terzi di quanti lavorano alla Ricerca e allo sviluppo, con punte del 72,8% in Svezia, 74,4% in Giappone, 82 % in Corea, per l’Italia galleggia al 43,6%.
Basterebbe imparare dagli altri, come dimostra la Germania che nel 2013, con il progetto “Roadmap for Research Infrastructure” si è imposta una tabella di marcia per “fornire un eccezionale ambiente per la Ricerca” capace di attrarre ricercatori di tutto il mondo e internazionalizzare la Ricerca tedesca. L’obiettivo è stato raggiunto in una manciata di anni scalzando infine dal primo posto la Gran Bretagna storicamente avvantaggiata dalla lingua. Non va bene nemmeno nella classifica dei Paesi europei più innovativi, stilata sulla base di ventisette indicatori nel dossier Innovation Union Scoreboard 2020, dove l’Italia è solo al diciottesimo posto, dopo la Repubblica Ceca e Malta.

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