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All’inizio non dà sintomi, poi il fiato diventa «corto». È lo scompenso cardiaco, una condizione che riduce la capacità del cuore di contrarsi. Così viene meno la funzione di pompa del sangue ai vari organi che quindi non ricevono più ossigeno a sufficienza.

In Italia un milione e duecentomila persone soffrono di scompenso cardiaco cronico: 1 su 5, sopra i 40 anni, svilupperà la malattia nel corso della vita. Può verificarsi a tutte le età, tuttavia è la prima causa di ricovero tra gli over65 (dati dell’Aisc).

Questa malattia, in aumento con l’avanzare dell’età media, può avere un impatto sociale molto oneroso, basti pensare agli oltre 180 mila pazienti che ogni anno richiedono il ricovero per tale patologia. Nel nostro Paese le ospedalizzazioni per lo scompenso cardiaco rappresentano circa il 2 per cento del totale dei ricoveri. Oltre il 25% dei pazienti muore entro un anno dalla diagnosi e circa la metà entro cinque anni.

Sebbene parta dal cuore, lo scompenso cardiaco si ripercuote su tutto l’organismo e quindi occorre sempre valutare il quadro generale del paziente.

Al suo esordio, la ridotta funzione cardiaca non dà sintomi rilevanti. Tuttavia, man mano che lo scompenso si aggrava, compaiono alcuni disturbi. Il più tipico è il fiato corto (dispnea), che all’inizio si presenta durante sforzi intensi, poi per sforzi sempre più lievi e, nelle fasi più avanzate, anche a riposo. Un altro sintomo tipico è la sensazione di stanchezza generale o debolezza. A questi “campanelli d’allarme” si aggiungono: gonfiore a gambe e caviglie, a causa del ristagno venoso e della ridotta capacità dei reni di eliminare acqua e sodio, disturbi del sonno, riduzione della portata cardiaca, perdita di coscienza, alterazioni della funzione renale, battito cardiaco accelerato.

Spesso alla base del problema ci sono patologie cardiache (quando le arterie che forniscono sangue al cuore si intasano possono causare un attacco cardiaco), angine (dolore toracico causato dalla riduzione del flusso sanguigno al cuore) e ipertensione arteriosa che indeboliscono o irrigidiscono il cuore, rendendo più difficile espellere il sangue in tutto il corpo.

In assenza di sintomi specifici lo scompenso deve essere sempre sospettato in pazienti che hanno avuto un infarto o quelli in cui un’attenta visita suggerisce la presenza di una cardiomiopatia o di una malattia valvolare. Tra gli accertamenti diagnostici indicati rientrano l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma, quest’ultimo serve ad evidenziare i segni iniziali di ingrandimento e disfunzione del cuore, oltre agli esami del sangue.

La scelta della strategia terapeutica più adatta dipende dalle caratteristiche della malattia. Il trattamento è innanzitutto farmacologico e si basa sull’impiego di alcuni farmaci di prima linea, tra i quali beta bloccanti, ace-inibitori o, in alternativa, sartani. Quando la malattia è nella fase più avanzata si fa ricorso ai più recenti Arni, ovvero gli inibitori del recettore dell’angiotensina e della neprilisina.

Oltre ai farmaci, è fondamentale smettere di fumare, tenere la pressione sotto controllo (con l’alimentazione e, se necessario, con farmaci mirati), limitare il consumo di sale, alcolici e di caffeina, seguire una dieta sana, fare esercizio fisico regolare e nei casi più gravi sottoporsi all’impianto di dispositivi cardiaci (bypass o pacemaker) per aiutare il cuore a contrarsi meglio, o al trapianto di cuore.

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