Ansiolitici e antidepressivi possono quasi raddoppiare il rischio di morte prematura nei pazienti con problemi cardiaci e per questo, in chi soffre di cardiopatia, l’ansia e l’uso di farmaci anche per la depressione dovrebbero essere monitorati perché possono influenzare gli esiti complessivi della malattia cardiaca. Sono questi in sintesi i risultati di uno studio danese recentemente pubblicato su European Journal of Cardiovascular Nursing, una rivista dell’European Society of Cardiology (ESC). L’associazione tra sintomi ansiosi e outcome di salute, mortalità inclusa, nei soggetti con patologie cardiovascolari è già noto in letteratura, ma questo studio verifica anche il ruolo dei farmaci sui risultati clinici. Non sorprende quindi quanto dichiarato da Pernille Fevejle Cromhout del Copenhagen University Hospital (Danimarca), prima autrice dello studio: “I pazienti con malattie cardiache che soffrono di ansia dovrebbero informare il medico”.
Lo studio nei cardiopatici ricoverati e con disturbi dell’umore
I ricercatori danesi hanno considerato 12.913 pazienti, inclusi nell’indagine danese DenHeart, in ospedale per patologie cardiache – un infarto, un’aritmia, uno scompenso cardiaco o una valvulopatia – ai quali è stato somministrato, al momento delle dimissioni, un questionario per individuare sintomi ansiosi.
Sull’impiego dei farmaci, invece, sono stati consultati i registri nazionali. Il gruppo delle persone con cardiopatia è stato suddivido in base all’utilizzo o meno di psicofarmaci, cioè la presenza di almeno una prescrizione per benzodiazepine, simil-benzodiazepine, antidepressivi o antipsicotipici nei sei mesi precedenti al ricovero.
Un paziente cardiopatico su cinque fa uso di farmaci psicotropi
Nell’anno successivo alla dimissione dall’ospedale, 2.335 pazienti (18%) hanno riutilizzato almeno una prescrizione di farmaci psicotropi fatta nei sei mesi precedenti il ricovero in ospedale. I farmaci più comunemente usati erano benzodiazepine (68%) e antidepressivi (55%). L’uso di questi farmaci è risultato maggiore nelle donne, nei pazienti più anziani, nei fumatori, nei vedovi, nei soggetti con un livello educativo più basso e in quelli con più comorbilità, cioè con altre patologie in corso.
Quasi un terzo dei pazienti cardiopatici (32%), secondo lo studio, è affetto da ansia. L’uso di farmaci psicotropi era due volte più alto nei pazienti con ansia (28%) rispetto a quelli senza ansia (14%). La mortalità, a un anno dalla dimissione, era più alta nei pazienti con ansia e consumo di psicofarmaci. Sono morti entro il primo anno dalla dimissione 362 pazienti (3%). Il tasso di mortalità a un anno era significativamente più alto negli utilizzatori di farmaci psicotropi (6%) rispetto ai non utilizzatori (2%).
Dopo l’aggiustamento dei dati in base a vari parametri - età, sesso, diagnosi del disturbo cardiaco, malattie coesistenti, abitudine al fumo, indice di massa corporea, livello di istruzione e stato civile - il riutilizzo di una prescrizione di farmaci psicotropi fatta entro i sei mesi precedenti il ricovero è stato associato a una probabilità quasi doppia di morte per tutte le cause (1,9) durante l’anno successivo alla dimissione. La presenza di ansia era associata a una probabilità maggiore di 1,81 di morte per tutte le cause durante lo stesso periodo di tempo.
Tuttavia – come sottolinea Cromhout – quando i ricercatori hanno tenuto conto dell’uso di psicofarmaci precedente all’ospedalizzazione e della presenza di un disturbo d’ansia, le associazioni sono diventate più deboli: 1,73 e 1,67, rispettivamente per l’impiego di psicotropi e per la presenza di ansia. “Tale indebolimento suggerisce che la relazione tra uso di psicofarmaci e mortalità è influenzata dalla presenza dell’ansia. E, viceversa, che quella tra ansia e mortalità è influenzata dall’uso di psicofarmaci”.
Il controllo dei disturbi dell’umore è importante nei pazienti cardiopatici, non solo per una questione di qualità della vita, ma anche per gli esiti clinici importanti come la mortalità. L’impiego di farmaci per ansia e depressione deve quindi essere attentamente valutato dal medico. A tale proposito, secondo Cromhout, i pazienti con problemi cardiologici, “dovrebbero anche chiedere il riconoscimento della loro ansia come una patologia, che ha un significato clinico paragonabile a quello della malattia cardiaca”.
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