La CAR-T Unit: un esempio di vera multidisciplinarità all'interno di un ospedale
Intervista a Massimiliano Gambella, medico ematologo dell’Unità operativa di Ematologia e Terapie cellulari dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova
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Intervista a Massimiliano Gambella, medico ematologo dell’Unità operativa di Ematologia e Terapie cellulari dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova
Attualmente la terapia CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T-cell) è indicata in oncoematologia per la cura dei linfomi aggressivi refrattari/recidivanti a precedenti terapie in persone fino a 70 anni di età con diagnosi di linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) - che è il più frequente e colpisce soprattutto intorno ai 60 anni - e linfoma primitivo del mediastino. L’altra indicazione è per la leucemia linfoblastica acuta in pazienti pediatrici e giovani-adulti, fino all’età di 25 anni.
“La Car-T consente di dare una prospettiva terapeutica in pazienti con malattia avanzata che non rispondono a chemioterapie e immunoterapie convenzionali e che, prima della terapia con CAR-T, non avevano alternative terapeutiche”, spiega Massimiliano Gambella, medico ematologo dell’Unità operativa di Ematologia e Terapie cellulari dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova.
La terapia CAR-T è innovativa. “Sfrutta un meccanismo alternativo a quello usato finora per contrastare le malattie ematologiche – dice Gambella -. Si utilizzano delle cellule del paziente, i linfociti T, i guardiani immunitari, nei quali viene inserita una molecola, con tecniche di ingegneria genetica, che consente ai linfociti T di riconoscere le cellule tumorali, legarsi e usare l’armamentario del sistema immunitario per aggredirle ed eliminarle”. Si tratta di una terapia mirata sulla singola molecola tumorale. I linfociti T del paziente, “possono essere ingegnerizzati in base alla tipologia di cellule da eliminare – continua l’ematologo -. Il CD19 è una molecola espressa sia sul linfoma sia nella leucemia linfoblastica. È una sorta di segnale, una bandiera che il linfocita T ingegnerizzato riconosce per riprodurre una risposta immunitaria specifica”. La proteina CD19 non è solo nella cellula che causa la malattia, “ma anche su dei linfociti sani e, per questo – osserva Gambella - può verificarsi una eliminazione temporanea, non solo delle cellule tumorali, ma anche di alcune tipologie di linfociti del paziente”.
Questa terapia innovativa richiede, per la complessità organizzativa, gestionale e assistenziale del paziente, la creazione di una squadra, un team multidisciplinare. C’è infatti una questione “gestionale perché - come racconta l’ematologo - è necessario organizzare una serie di tappe: la raccolta dei linfociti del paziente, il loro invio alla casa madre dell’azienda che le ingegnerizza e la conservazione delle cellule, una volta che rientrano al centro che si occupa dell’infusione”. Ci sono quindi più figure professionali coinvolte nel processo. “L’ematologo clinico, il farmacista, il medico del centro trasfusionale e i medici-biologi che lavorano nel laboratorio per la gestione delle cellule ingegnerizzate”, continua Gambella. Si deve inoltre considerare che il paziente, dopo l’aferesi, cioè dopo che sono stati prelevati i linfociti, deve essere attentamente controllato in attesa della terapia, che richiede circa un mese per la preparazione. Inoltre, almeno nel primo mese di follow up, cioè dopo l’infusione delle cellule CAR-T “si possono verificare effetti collaterali specifici dovuti al trattamento – chiarisce l’oncoematologo -. Sono principalmente reazioni di tipo infiammatorio e neurologico che richiedono la partecipazione di più figure professionali che corrispondono al neurologo, al cardiologo, l’ematologo, l’anestesista rianimatore e l’infettivologo, in grado di riconoscere e affrontare in maniera adeguata tali complicanze”.
Nei centri specializzati per la terapia CAR-T, “il primo passo da fare è istituire il team, composto da almeno una decina di figure che collaborano strettamente e che afferiscono da aree di anestesia, neurologia, cardiologia, ematologia, medicina trasfusionale e farmacia – spiega Gambella -. In funzione della tappa in cui ci si trova, ci sono diverse figure che interagiscono tra loro”. Nella fase in cui, data l’indicazione, si decide di raccogliere le cellule, “collaborano: ematologo, farmacista, il medico del centro di trasfusionale ed il personale di laboratorio, quindi - aggiunge - i clinici che si occupano del paziente per contrastare eventuali effetti collaterali: l’intensivista, il neurologo, l’infettivologo che si alternano in base alle necessità, anche impiegando protocolli e procedure standardizzate che possono prevedere il trasferimento in terapia intensiva in presenza di determinate caratteristiche cliniche”. È poi fondamentale il ruolo del personale infermieristico, che ha il “polso”, ora per ora, del paziente durante il ricovero.
In questo momento, in Italia, ci sono 23 centri CAR-T per adulti e 5 pediatrici. “Nel contesto di una terapia così innovativa – racconta Gambella – è fondamentale che i centri collaborino e condividano i dati. Ci sono studi prospettici multicentrici di real life – cioè espressione della vita reale - a cui afferiscono diversi centri sotto l’egida o la collaborazione delle società scientifiche, ed in particolare della Società italiana di ematologia (SIE). Tra i diversi centri c’è una buona collaborazione con l’obiettivo comune di ottimizzare il trattamento in termini di efficacia e sicurezza, nonché di approfondirne la conoscenza biologica. Quanta più collaborazione c’è, meglio è”. Sono inoltre in corso importanti studi internazionali che stanno testando le CAR-T in malattie ematologiche diverse che coinvolgono anche centri italiani. Tra queste malattie ci sono anche i linfomi indolenti e il mieloma multiplo.
I dati relativi ai principali studi che hanno validato queste terapie mostrano che a 2 anni dall’infusione dei linfociti Car-T (follow up), “circa il 40% dei pazienti mantiene una risposta alla terapia – conclude Gambella -. Non parliamo ancora di guarigione, perché serve un follow up più lungo, ma in una quota rilevante di pazienti, per i quali non esisteva una cura alternativa, abbiamo una prospettiva concreta di cura che si mantiene nel corso del tempo”.
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