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La gestione di una malattia cronica in età pediatrica è molto diversa da quella in età adulta e il passaggio nel percorso di cura non sempre è semplice. Questo è vero anche per l’anemia falciforme (Scd, Sickle cell disease), un gruppo di malattie in cui c’è un difetto nell’emoglobina che altera la funzionalità dei globuli rossi. L’anemia falciforme si manifesta in alcune aree geografiche, dove è endemica (come la Sicilia, ad esempio). “È una malattia genetica che si trasmette al figlio quando entrambi i genitori sono portatori della mutazione - spiega Giovanni Palazzi, dirigente medico dell’Unità operativa di oncoematologia pediatrica al Policlinico di Modena -. È una anemia, riguarda un difetto di un’unica molecola del globulo rosso, un puntino che però lo rende meno elastico, rigido e con la caratteristica forma di falce”. Di solito l’anemia delle cellule falciformi si scopre nei bambini perché “i globuli rossi si rompono facilmente - da qui anemia – ed essendo rigidi intasano le vene e le arterie, dando sintomi dolorosi nel punto del corpo dove occludono le arterie causando danni più o meno gravi, a seconda dell’organo interessato - continua Palazzi -. Arrivano al pronto soccorso con forti dolori”.

I tempi della diagnosi

La diagnosi è perinatale, cioè alla nascita. “Qui a Modena identifichiamo la mutazione alla nascita ed è fondamentale perché la diagnosi tempestiva riduce in modo drastico la mortalità, che sarebbe elevata nei primi anni di vita. Si tratta di un progetto sviluppato ad hoc, per anticipare la diagnosi, che altrimenti si fa con le prime crisi dolorose. Anticipare la diagnosi significa prevenire le complicanze maggiori e le infezioni a cui questi bambini sono particolarmente suscettibili”, aggiunge. È facile per i pediatri, con un programma di screening, trovare il bambino con anemia falciforme, se è figlio di genitori provenienti da una zona endemica. Più difficile diagnosticarla nell’adulto, spesso di origine africana, che da anni si lamenta di dolori ma non ha mai ricevuto una diagnosi.

Gli adulti possono essere trattati dal medico internista, ma il bambino, quando cresce, non può essere seguito sempre dal pediatra, anche solo pensando al caso di un ricovero. “Questa è una condizione comune alle malattie genetiche – osserva Francesca Ferrara, dirigente medico dell’Unità operativa di Medicina interna al Policlinico di Modena – ma molte patologie che una volta interessavano solo l’infanzia, grazie ai progressi della medicina, si aprono all’età adulta”.

Quando il pediatra non basta più: l’idea di un team per un passaggio graduale

Vedendo crescere i suoi piccoli pazienti, il dottor Palazzi si è domandato chi potesse seguirli, assisterli in età adulta e “circa 15 anni fa – continua Ferrara – ha chiesto a noi internisti, che seguivamo altre malattie rare ma in parte analoghe, se potevamo prenderci cura di questi pazienti. Abbiamo quindi iniziato la collaborazione conoscendo i pazienti dai 18-19 anni, quando si sentivano pronti, incontrandoli insieme al dottor Palazzi e diventando un riferimento per loro, in modo graduale e continuativo. L’adulto richiede una responsabilizzazione che non è richiesta al bambino”. Questa la chiave vincente del modello: la collaborazione tra medici nella presa in carico condivisa per un periodo.

Prossimo passo: formalizzare il modello

Per la presa in carico del paziente con anemia falciforme nel passaggio alla vita adulta, “dobbiamo passare a una strutturazione del percorso, che prescinda dalle persone – afferma Palazzi -. Questo è possibile predisponendo dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (Pdta), che sono la formalizzazione di quanto abbiamo iniziato a livello volontaristico, grazie anche alla fiducia della direzione generale e dei primari che hanno creduto e fortemente voluto il progetto. Si tratta di incontrarsi, darsi obiettivi e monitorarli. Questa è una malattia del sangue – aggiunge l’oncoematologo pediatrico - ma con risvolti ben più ampi: abbiamo bisogno di un team di specialisti (oculista, ortopedico, neuroradiologo ecc.). Queste sono figure formali nel Pdta che devono rendicontare e avere le competenze. Al policlinico di Modena esiste il Pdta da 4 anni e lo stiamo portando avanti. Vogliamo dargli una struttura formalmente multidisciplinare, di equipe. Non c’è un solo referente: abbiamo fortemente voluto, fatto desueto per un Pdta, 3 responsabili perché, oltre a pediatra e internista, c’è anche il referente del Servizio trasfusionale, Dott.ssa Venturelli, a testimoniare concretamente la collaborazione e la responsabilità condivisa”. L’obiettivo però è di andare oltre. “Vorremmo creare un ambulatorio integrato dove medici visitano insieme il paziente. Questo Pdta – conclude Palazzi - è della nostra realtà aziendale, ma il documento è nei centri regionali per essere esportato, riutilizzato e adattato alla realtà territoriale in cui deve essere applicato”.

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