La tecnologia della realtà virtuale potrebbe essere d’aiuto nel trattamento del disagio psicologico negli adolescenti. In questi due anni di pandemia da Covid, è cresciuto il malessere psicologico di piccoli e grandi. In particolare, le limitazioni agli spostamenti, l’isolamento e il distanziamento, anche se necessari per ridurre la trasmissione del virus Sars-Cov2, hanno ostacolato e spesso impedito il coinvolgimento sociale, con effetti non trascurabili soprattutto per gli adolescenti.
Non ci sono studi conclusivi sulla realtà italiana, ma il centro antiveleni segnala che in questi mesi è quasi raddoppiata la frequenza con cui ci sono stati segnalati episodi di intossicazioni a scopo autolesivo negli under 18. Negli Stati Uniti, per esempio, nei primi sei mesi del 2021 gli ospedali psichiatrici hanno segnalato un aumento del 45% del numero di casi di autolesionismo e tentativi di suicidio tra 5 e 17 anni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
In Italia, un’indagine commissionata dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (CNOP), pubblicata lo scorso ottobre, mostra che, in base alle risposte di 5.621 psicologi, durante l’epidemia i minori in trattamento psicologico sono aumentati del 31%. Come segnala David Lazzari, presidente del CNOP, “tra i giovani sino a 18 anni uno su due vive un disagio psicologico e uno su dieci manifesta un disturbo” e tali problematiche dureranno anni.
La risorsa della realtà virtuale
Sull’efficacia di un trattamento virtuale per sollevare gli adolescenti dal disagio psicologico è stata recentemente pubblicata una revisione sulla rivista Cyberpsychology, behavior and social networking degli studi disponibili.
Dopo aver analizzato la bibliografia sull’argomento, trovando 2.150 articoli, gli autori, una volta eliminato i doppioni, ne hanno considerato 1.457 e, tra questi, hanno considerato solo i sette che soddisfacevano i criteri di ammissibilità. In base a quanto emerso dagli studi (quattro provenivano dagli Stati Uniti e uno ciascuno da Iran, Norvegia e Paesi Bassi), gli autori, pur evidenziando dei limiti sull’esiguo numero di dati utilizzabili, sono arrivati alla conclusione che “la tecnologia che impiega la realtà virtuale può fornire una modalità di trattamento rapidamente efficace e accettabile per gestire il disagio psicologico in parecchi gruppi di adolescenti”.
Realtà virtuale per il trattamento dell’ansia sociale
Dall’analisi standardizzata degli studi emerge come la realtà virtuale sia uno strumento efficace per la gestione del disagio psicologico nell’adolescente e in particolare nei disturbi d’ansia. Il tipo di disturbo esploso con la pandemia è stato proprio la cosiddetta ansia sociale: gli adolescenti si sono trovati talmente bene a casa, con i videogiochi e con la didattica a distanza (Dad), che poi molti non hanno voluto più uscire. La realtà virtuale si è dimostrata efficace proprio nella gestione dell’ansia sociale.
Questa tecnologia usa l’approccio della terapia cognitivo-comportamentale che viene impiegata tipicamente in questi casi anche insieme, a volte, a tecniche legate alla mindfulness che sono più legate all’Acceptance and commitment therapy (Act, terapia di accettazione e di impegno nell’azione), cioè la versione avanzata della terapia cognitivo-comportamentale.
Il sistema lavora su due elementi. Il primo è costituito dalla desensibilizzazione: il soggetto viene esposto a una serie di situazioni che sperimenta come problematiche secondo il principio che, nel ripetere la stessa esperienza più volte, si riduce il livello di ansia. La seconda dimensione impiegata interessa il superamento del problema. Se un soggetto ha paura di non essere in grado di gestire le interazioni con i suoi pari, ad esempio, la realtà virtuale dimostra invece che riesce a farlo. Questa esperienza aumenta la fiducia nelle proprie capacità, abilità, potenzialità di esercitare un controllo sugli eventi e spinge a provarci anche nella vita reale.
Come funziona la realtà virtuale nell’ansia
La tecnologia della realtà virtuale è l’unica ad aver dimostrato di essere in grado di attivare i cosiddetti neuroni Gps che sono legati all’orientamento nello spazio. I coniugi May-Britt Moser ed Edvard Moser - che li hanno scoperti e per questo hanno vinto il Premio Nobel per la medicina nel 2014 - hanno infatti osservato che, oltre a mappare lo spazio, i neuroni Gps hanno un ruolo anche nella memoria autobiografica, cioè la definizione di chi siamo all’interno dello spazio. La realtà virtuale fornisce uno spazio e, attraverso i neuroni Gps, ciò che si compie resta agganciato alla memoria autobiografica.
Nell’impiego di questa tecnologia si deve considerare che ha un impatto sul sistema vestibolare: chi soffre di mal d’auto, mal di mare o disturbi di questo tipo (2-3% della popolazione), con la realtà virtuale potrebbe sperimentare la cosiddetta simulation sickness e potrebbe non essere idoneo a questo tipo di trattamento.
Realtà virtuale come tecnologia da prescrizione o digital therapeutics
In caso di ansia sociale, la prescrizione di sedute di realtà virtuale, come si fa per terapie e farmaci, è un traguardo ancora da raggiungere per una serie di problemi. Prima di tutto mancano gli studi clinici di alta qualità: requisito indispensabile per l’introduzione di una soluzione nella pratica clinica. Del resto oggi non c’è ancora un mercato forte della realtà virtuale e le società che sviluppano questi programmi spesso non hanno le risorse per realizzare studi complessi come quelli richiesti ai farmaci.
Un altro grosso limite riguarda il fatto che in Italia che non sono previsti rimborsi. Nonostante ci sia una regolamentazione che permette di avere la certificazione per il software come dispositivo medico, oggi queste terapie tecnologiche, note come digital therapeutic, non sono considerate un’opzione terapeutica dal Servizio sanitario nazionale. A tale proposito è importante ricordare che nessuna delle oltre 400.000 app raggruppate sotto la generica sigla “salute” è identificabile come “terapie digitali”, uno dei filoni principali della rivoluzione tecnologica che interessano la sanità. Le digital therapeutics, rispetto alla medicina tradizionale usano come principio attivo non un farmaco chimico o un dispositivo, ma un software, cioè un programma che si scarica su smartphone o latro supporto. Secondo la definizione data dalla Digital Therapeutics Alliance, le “digital therapeutics” (DTx, la sigla in inglese) sono tecnologie che “offrono interventi terapeutici guidati da programmi software di alta qualità, basati su evidenza scientifica ottenuta attraverso sperimentazione clinica metodologicamente rigorosa e confermatoria, per prevenire, gestire o trattare un ampio spettro di condizioni fisiche, mentali e comportamentali”. A differenza di quanto si registra in Italia, in America, Francia e Germania esiste già un modo che permette al medico di prescrivere queste terapie che attualmente trovano impiego soprattutto per problemi di dipendenza o disturbi dell’umore.
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