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Veloci da preparare e piacevoli al palato. I cibi ultra-processati (Upf), frutto di ripetute lavorazioni industriali e spesso promossi da marketing accattivante, sono pratici, ma assumerne troppi può far male alla salute. Soprattutto se il consumo elevato di questi alimenti confezionati riguarda gli anziani perché sono i soggetti più “a rischio” di sviluppare malattie cardiovascolari e mortalità. Non solo. L’eccesivo ricorso a questi prodotti è associato a episodi di dislipidemia, patologia dovuta ad una serie di alterazioni della quantità di lipidi (grassi) nel sangue, in particolare trigliceridi e colesterolo.

È quanto emerge da uno studio condotto da alcuni ricercatori in Spagna, dove nel 1990 il consumo di Upf rappresentava l’11% dell’assunzione energetica giornaliera, ma da allora è quasi triplicato. Quando nel 2000 il consumo di tali prodotti è stato confrontato tra i vari Paesi europei, il contributo medio degli Upf all’assunzione energetica totale in Spagna e in Italia è stato del 35%, mentre è salito al 60% nei Paesi Bassi, Svezia, Norvegia, Danimarca e Regno Unito.

Realizzati principalmente o interamente con sostanze derivate dagli alimenti mediante lavorazione e aggiunta di additivi, gli alimenti ultra-processati, anche sulla base del loro costo accessibile rispetto a frutta fresca, verdura, carne e pesce, sono diventati l’opzione più scelta per molte famiglie attente ai costi. Generalmente poveri di valore nutrizionale, contengono quantitativi elevati di zuccheri aggiunti, acidi grassi trans e sodio, nonché additivi e composti potenzialmente neoformati che si creano durante la lavorazione termica degli alimenti. Per questi motivi la comunità scientifica si è molto interessata nel valutare i rischi per la salute associati all’elevato consumo di Upf sulla popolazione.

Il consumo di Upf – si legge nello studio spagnolo – è associato all’aumento della mortalità, delle malattie cardiovascolari e dell’aterosclerosi subclinica, nonché a diverse condizioni di rischio cardiometabolico, come ipertensione, obesità addominale, sindrome metabolica o diabete di tipo 2.

E sul potenziale legame tra Upf e dislipidemia, lo studio condotto da un gruppo di ricerca spagnolo ha avuto come scopo quello di valutare la relazione esistente tra consumo di tali alimenti e l’incidenza di dislipidemia negli anziani. Gli autori hanno preso in esame una coorte di 1082 adulti (52% donne) residenti all’interno della comunità in Spagna, di persone con età superiore ai 60 anni (età media, 68 anni), tutti scelti tra il 2008 e il 2010 e seguiti fino al 2015.

Dallo studio è emerso che tra coloro che erano privi della relativa dislipidemia al basale, e dopo un follow-up compreso tra i 5 e i 7 anni, 60 soggetti (su 895) hanno sviluppato ipertrigliceridemia (≥150 mg/dl), 112 (su 878) avevano un basso colesterolo Hdl (<40 mg/dl negli uomini/<50 mg/dl nelle donne) e 54 (su 472) avevano un elevato colesterolo Ldl, detto “cattivo” (>129 mg/dl). La percentuale media del consumo di cibi ultra-processati era del 19%.

Sebbene in Spagna il consumo di Upf fosse basso tra gli anziani, un consumo elevato di tali prodotti era chiaramente associato ad eventi di dislipidemia. L’aumento del rischio di malattie cardiovascolari, che recentemente si è scoperto essere associato al consumo di cibi industriali, potrebbe essere mediato da queste anomalie lipidiche aterogene, fattori in grado di favorire la genesi dell'aterosclerosi.

25/05/2023

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