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Il gioco è uno strumento importante per la valutazione e il trattamento di disturbi legati alla neuro e psico motricità dell’età evolutiva ed è utile soprattutto per bambini e adolescenti con ritardi per problematiche nelle aree neuropsicomotorie, disturbi della coordinazione motoria (disprassia), autismo, Adhd (disturbo da deficit di attenzione/iperattività), disabilità intellettiva, disturbi visivo-percettivi, sindromi rare come quella di Rett, paralisi cerebrali infantili o malattie neuromuscolari. La maggior parte dei pazienti con patologie neuromuscolari ha un deficit motorio ma non intellettivo. Proprio per questo “è fondamentale” mettere questi piccoli “nella condizione di poter giocare perché il gioco di per sé è molto importante: è il mezzo attraverso il quale il bambino conosce il mondo da tante angolazioni diverse. Così impara non solo modalità di movimento ma anche di relazione, impara a stare in società”, spiega Enrica Rolle presidente di Uildm (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare) di Torino e terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva S.S. Malattie neuromuscolari, dipartimento di Neuroscienze Rlm, Università di Torino.

Il gioco non è solo il mezzo di valutazione e trattamento di deficit motori – come è scientificamente provato – ma anche un modo “per entrare in relazione con il bambino, creare quell’alleanza terapeutica essenziale per lo svolgimento del nostro lavoro – aggiunge la terapista -. È anche il motivo per cui nelle nostre terapie non abbiamo dei protocolli rigidi, perché ci adattiamo in quel momento alle esigenze del bambino, che cambiano di volta in volta”. Si spiega quindi perché anche il semplice impilare barattoli per fare la torre più alta diventi un trattamento, o uno strumento di relazione e valutazione, per un bambino con una distrofia o altra patologia neuromuscolare (circa 2mila in Italia).

Ovviamente in base alla valutazione psico-motoria è possibile mettere a punto delle strategie, con il coinvolgimento dei genitori, per rispondere al bisogno dei bambini di giocare, consigliando contesti che favoriscano lo sviluppo motorio del piccolo, evitando situazioni che potrebbero peggiorare le sue condizioni. “I pazienti con atrofia muscolare spinale (Sma) – precisa Rolle - hanno tendenzialmente meno forza quindi suggeriamo, di solito, l’utilizzo di giochi molto leggeri, posizionati in modo tale da poter consentire, con il loro movimento, di mettersi in azione o di giocare con altri bambini”.

Giochi personalizzati

Nel concreto, di solito, “la prima volta che incontriamo un bambino – aggiunge la terapista - osserviamo la sua capacità di gioco e di movimento spontanei. Ad esempio, se parliamo di un bambino in grado di spostarsi ‘a quattro zampe’, disponiamo i giochi nella stanza e vediamo come il bimbo si muove nell’ambiente, come interagisce con i giochi e identifichiamo già alcune aree che potrebbero essere un po’ più carenti rispetto a quello che ci aspetteremmo per un bambino di quell’età. Attraverso delle modifiche dell’ambientazione o interazioni dirette con il bambino, cerchiamo di capire se in quel momento è in grado di compiere determinati movimenti con un aiuto o se, invece, è una competenza che non ha ancora sviluppato. Ad esempio - continua - se voglio verificare se dal gattonare riesce a mettersi in ginocchio, banalmente prendo il gioco e lo metto più in alto e vedo se lui, per raggiungerlo, riesce a mettersi in ginocchio e quali strategia utilizza per farlo”.

La terapia non richiede necessariamente strumenti particolari, ma piuttosto l’utilizzo, in modo adeguato, di molti giochi che sono normalmente in commercio. “Non è tanto il gioco in sé, ma il modo in cui viene utilizzato che fa la differenza – precisa Rolle -. Usiamo cuscini, tappeti, elastici, oltre a strumenti specifici come la palla Bobath o il lettino Bobath, su cui è più facile eseguire i trattamenti. Poi c’è tutto il mondo delle ortesi e degli ausili”. Ma soprattutto, ricorda la terapista, “bisogna essere molto fantasiosi, adattarsi velocemente alla situazione con ciò che si ha a disposizione e in base a quelli che sono gli interessi dei bambini, diversi uno dall’altro”.

Il coinvolgimento soft dei genitori

La collaborazione con mamme e papà è fondamentale per garantire la continuità delle cure, ma serve un’attenzione particolare perché “il genitore rimanga tale e non diventi lui stesso un terapista, perché non fa bene a nessuno – sottolinea l’esperta -. Le famiglie vivono già una situazione molto complessa in generale, fatta comunque di preoccupazione e di stress. Nelle sedute di trattamento facciamo un lavoro molto preciso, mirato e intensivo, ed è giusto che il bambino sappia che quel lavoro si fa con noi. Ai genitori diamo dei consigli su come posizionare i bimbi, come aiutarli e facilitarli, ma senza dare indicazioni come se fosse un trattamento”. Insomma, si forniscono “consigli di massima da utilizzare quotidianamente ma per un tempo indicativo, perché – aggiunge - ci interessa che il bambino lavori bene quando è il momento, ma poi è giusto che giochi liberamente con i suoi genitori”.

Un’evoluzione dal lockdown al digitale

Durante la pandemia da Covid-19, in particolare nei mesi di lockdown, si sono messe a punto delle strategie che si sono rivelate utili anche dopo il momento di massima emergenza sanitaria. “Siamo partiti con i colloqui telefonici – spiega Rolle - per capire com’era la situazione. Ci siamo inventati dei giochi che i bambini potessero fare in autonomia o con fratelli o familiari. Oppure abbiamo creato dei file, e li abbiamo mandati ai genitori, con le istruzioni su possibili alternative per continuare un certo tipo di trattamento, che ovviamente andava modificato perché il “setting” non era lo stesso di quando si è in presenza”. Da questa esperienza è partita la ricerca per sfruttare le potenzialità offerte dalle tecnologie digitali innovative come “applicazioni che ci consentano di monitorare l’andamento del paziente a distanza – continua - in modo da avere una sorta di diario dell’attività svolta dal bambino”.

19/10/2022

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