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Ha valutato quanto davvero si conosca del rischio cardiovascolare, il poster presentato recentemente all’EAS 2022, il congresso della Società europea dell’aterosclerosi, (Eas, European Atherosclerosis Society). L’indagine - dal titolo Patient activation, health awareness, and patient journey in patients with cardiovascular risk factors receiving treatment for hypercholesterolemia - ha valutato le attitudini e il percorso di 161 pazienti italiani che soffrono di ipercolesterolemia e sono in terapia per la prevenzione primaria e secondaria di problemi cardiovascolari.

L’83% degli intervistati dichiara di conoscere i propri livelli di colesterolo totale. Tuttavia solo il 60% dei pazienti conosce propri i propri livelli di colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo “cattivo”) e meno della metà degli intervistati è consapevole dei propri livelli target da raggiungere per ridurre il rischio di eventi importanti come infarto e ictus.

A fronte del concetto consolidato che sia il colesterolo LDL ad essere pericoloso, perché se presente in quantità eccessiva nel sangue può aumentare il rischio cardiovascolare e  portare a eventi acuti come infarto o ictus – tanto che il messaggio condiviso dagli esperti è che “the lower, the better” ovvero “più basso è, meglio è” - l’indagine fa emergere quanto ci sia ancora da lavorare per aumentare la conoscenza della patologia e sulla consapevolezza dei reali fattori di rischio modificabili da tenere sotto controllo, anche nei pazienti più consapevoli (empowered, come si dice in inglese) del proprio stato di salute.

“La consapevolezza dei fattori di rischio modificabili, come i livelli di colesterolo LDL propri e target, è importante perché ci sono tante tipologie di terapie e si può scegliere quella più adatta per ciascuno. Agendo su questi fattori di rischio possiamo ridurre mortalità e invalidità per problemi cardiovascolari”, osserva, commentando i dati dell’indagine, il prof. Paolo Magni, medico e docente di Patologia all’Università degli Studi di Milano e coordinatore del comitato scientifico della Fondazione Italiana per il Cuore (FIPC). “Ogni evento acuto – infarto o ictus – è improvviso, ma deriva dalla combinazione di una trombosi acuta (formazione di un coagulo di sangue) in corrispondenza di ispessimenti nelle arterie (placche aterosclerotiche) che si sono formati negli anni a causa del protrarsi di elevati livelli di colesterolo LDL, che si può facilmente misurare e controllare”.

Perché il colesterolo LDL è un fattore di rischio

“Essendo un grasso – spiega Magni – il colesterolo non è solubile nel sangue, per questo viaggia legato a proteine (lipoproteine) di cui ne esistono diversi tipi. Le HDL (High Density Lipoprotein, lipoproteine ad alta densità) costituiscono il colesterolo “buono”, perché, in questa forma, è in qualche modo protettivo dal punto di vista del rischio cardiovascolare. Il colesterolo LDL (Low Density Lipoprotein o lipoproteine a bassa densità) è un fattore causale di molte malattie cardiovascolari perché si deposita nella parete dell’arteria, determinando la formazione di una placca aterosclerotica che può causarne una chiusura parziale o totale”. La maggior parte dei problemi cardiovascolari - infarto miocardico o cerebrale (ictus) - sono infatti dovuti all’occlusione di arterie importanti che comportano la morte (necrosi) del tessuto a valle della ostruzione che, di fatto, blocca il flusso di sangue.

“In un soggetto anche sano – continua il professore - possiamo valutare con l’ecografia la presenza di queste placche, ad esempio a livello di arterie del collo (carotidi): se il flusso è ridotto fino al 30% il rischio è contenuto, ma se passiamo al 70%, può essere necessario eliminare chirurgicamente la placca con l’applicazione di uno stent o con una sostituzione della parte”.

Il colesterolo LDL è un fattore causale nella formazione della placca, ma non è l’unico: la possibilità di infarto o ischemia o insufficienza arteriosa periferica, aumenta, per esempio, di 3-4 volte nei soggetti con diabete.

L’evento acuto si manifesta perché una placca che dà stenosi del 30-50% si danneggia o si rompe, favorendo l’attivazione dell’aggregazione delle piastrine che portano alla formazione di un coagulo che chiude il lume del vaso, con la conseguente morte del tessuto a valle.

Fattori modificabili e non modificabili

“La misurazione del profilo lipidico - colesterolo totale, HDL, LDL e trigliceridi - costa pochi euro. Non è un esame costoso – ricorda Magni – Dal punto di vista generale, tutti dovrebbero avere la misurazione di questo parametro. Il consiglio è di dosarlo almeno una volta, nei primi 2 decenni di vita e, se non ci sono fattori di rischio - fumo, diabete e obesità - basta ogni 5 anni. Esiste poi una forma genetica, l’ipercolesterolemia familiare, che interessa 1 persona su 250 circa – precisa l’esperto di FIPC - Sono persone che hanno geneticamente il colesterolo elevato sin dalla nascita e magari presenza di malattie cardiovascolari precoci e colesterolo elevato in famiglia. In questi casi sarebbe meglio fare il test prima possibile e quindi anche in età infantile per conoscerne il valore”.

Falsi miti

Il colesterolo alto non è una questione che interessa solo gli anziani, ma “il colesterolo alto non dà spesso sintomi, è asintomatico – precisa Magni - quindi il vero problema, come per la glicemia, è misurarlo per conoscerne il valore prima che sia troppo tardi”.

C’è poi la convinzione che la donna sia protetta da rischio cardiovascolare in età fertile. “Tuttavia – dice il medico – cumulativamente, la donna ha molte più malattie cardiovascolari del maschio, ma in età più avanzata”. In particolare, “non dovremmo giustificare la presenza di sintomi patologici nell’anziano solo a causa dell’età e quindi sempre attuare accurate diagnosi e eventuale terapia anche in tarda età.

Ad esempio, la presenza di placche aterosclerotiche in una signora di 85 anni - aggiunge – non è qualcosa che compare appunto di colpo a 85 anni, ma è il risultato di un percorso pluridecennale che ha creato un danno e che può avere importanti conseguenze patologiche. Al riguardo, quindi è importante valutare la colesterolemia LDL in tutte le fasce di età e individuare le persone - uomini e, appunto, anche e soprattutto donne - che sono a maggiore rischio di sviluppare queste ostruzioni arteriose di tipo aterosclerotico. Una buona prevenzione ha il vantaggio di ridurre l’incidenza di ictus cerebrale e infarto cardiaco sia di tipo mortale, sia non fatale, ma che può causare grave disabilità, che è invece molto frequente e costosissima, sia per l’impatto personale che per la società”.

L’esperto invita ad essere “più consapevoli in tutte le età, anche nei giovani: anche a 20 anni e in piena salute, è utile considerare ad esempio se il nonno ha avuto l’infarto. In tal caso si deve pensare che, teoricamente, questo possa essere un fattore di rischio possibile anche per se stessi nell’arco della vita e che significa che è importante fare l’analisi del sangue. Si tratta di accrescere la consapevolezza sulla presenza di fattori di rischio di malattie cardiovascolari.

Il paziente va motivato alla prevenzione e alla terapia

“Bisogna ragionare in termine di traiettoria della vita”, sottolinea Magni, riferendosi ai risultati della ricerca presentata al congresso EAS 2022. L’intervista via web, realizzata con metodi validati scientificamente, era composta da tredici domande finalizzate all’autovalutazione, da parte del paziente, delle proprie conoscenze, competenze e fiducia nella gestione del proprio stato di salute (inclusi esami da effettuare e terapie da assumere). Più alto era il punteggio, migliore era il comportamento per la promozione di una buona salute (attivazione del paziente). I livelli 1-2 indicavano una bassa attivazione e 3-4 alta consapevolezza.

Tutti i 161 intervistati avevano un’età media intorno ai 60 anni, erano pazienti in trattamento per l’ipercolesterolemia per la prevenzione primaria (n=78) - cioè con diagnosi di ipercolesterolemia, ma con nessun evento cardiovascolare pregresso - mentre 83 erano in prevenzione secondaria (post infarto, 52% e post ictus 12%).  Il 20-30% presentava obesità, il 55% diabete.

“Trattandosi di persone già in un percorso terapeutico – osserva il professore – la consapevolezza è risultata elevata nella maggior parte (n=113) dei pazienti. Tuttavia, 48 pazienti avevano una bassa consapevolezza e aderenza (bassa attivazione): quindi circa il 30% di chi ha già avuto una diagnosi ha poca consapevolezza”. Interessante l’aspetto motivazionale che emerge dall’indagine. “I bassi livelli di attivazione sono relativi a persone che psicologicamente fanno fatica a seguire i consigli e attuare buone pratiche - aggiunge Magni - il livello 2 ha poca fiducia in sé, mentre il livello 3 è di persone che cercano di seguire le terapie e il 4 mantiene le terapie e cerca di informarsi di più e fare sempre meglio”.

Secondo l’esperto del FIPC, bisognerebbe “lavorare sugli aspetti psicologici di chi è più fragile (livelli 1 e 2 dell’indagine), per favorire una maggiore attivazione dei pazienti, con vantaggio in particolare per loro stessi. Non è una questione solo di prescrizione di farmaci: medico e farmacista sono molto importanti in questo senso, ad esempio nel promuovere l’aderenza alle terapie che è al 37% nel gruppo a basso livello di attivazione e 56% nel gruppo più alto. Anche l’attività fisica – aggiunge – è al 40% nella bassa attivazione contro 60% di chi aveva valori più elevati”. Particolarmente indicativo il dato sui valori medi del colesterolo LDL nei pazienti studiati, “132 mg/dL, rispetto alla soglia di 115 (100 in chi ha diabete) nei soggetti poco attivati, contro valori di 108 in quelli ad alta attivazione”, con risvolti importanti in termini di salute. Se il paziente non è a target “va aiutato in maniera multidimensionale – aggiunge il medico - si tratta di lavorare nell’intorno del farmaco, e quindi accompagnare le persone, personalizzare anche l’intervento di consapevolezza in base alle fasce d’età e alla situazione graduandolo in modo che non sia né scarsa né eccessiva”.

Un’opportunità dalle terapie innovative

Ci sono molti strumenti diagnostici e terapeutici in questo settore che possono fare la differenza in termini di salute. “Essere consapevoli – precisa Magni - ha conseguenze in diagnostica e in terapia: conosciamo i biomarcatori e abbiamo terapie sia consolidate che innovative molto efficaci. Alcune innovazioni possono facilitare anche l’aderenza alle cure. Per il paziente ad elevato rischio cardiovascolare, magari anche dopo un infarto cardiaco, insieme alle terapie tradizionali, ci sono farmaci ipocolesterolemizzanti che possono essere somministrati ogni 15-30 giorni oppure ogni 6 mesi. Sono terapie biotecnologiche che bloccano l’espressione di specifiche proteine nel fegato, con riduzione importante del colesterolo LDL nel sangue”.

07/07/2022

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